folklore e tradizioni, guida sentimentale di Reggio e provincia, Idee di viaggio

A Gallicianò.

A Gallicianò l’ospite è sacro. È sacro come lo era nella cultura millenaria della Magna Grecia, cultura della quale questo piccolo borgo aspromontano ha conservato splendidamente, nel corso dei secoli, il carattere, le tradizioni, in una parola l’anima. “Apri la porta, affinché entri il sole” – o meglio, “Anisce tìn porta, na mbèi o ìglio” perché, dell’antica Grecia, Gallicianò ha conservato persino la lingua – è l’espressione che fu usata da un abitante del paese ormai più di mezzo secolo fa per sancire l’ingresso in casa propria di un’ospite speciale, e da quel giorno è diventata la formula magica di ogni nuovo ingresso, di ogni accoglienza.

In questo piccolo splendido borgo, l’ospite è il sole. È il sole ed è luce, l’ospite, per Gallicianò e la sua gente, per un popolo che sentì forte, secoli fa, la necessità di nascondersi tra queste dure ed aspre vette e che oggi, di quella scelta, è costretto a pagarne le conseguenze amare. L’isolamento, l’abbandono, l’emigrazione. Se sei una delle quaranta persone rimaste stabilmente ad abitare qui – a volte gli uomini e le donne hanno radici incredibilmente forti e tenaci – ed assisti ogni giorno all’inesorabile spopolamento del tuo paese natio, si capisce bene come ogni visita inattesa, ogni novità, ogni evento che possa portare un po’ di vita sia per te, semplicemente, luce, semplicemente il sole.

Non è molto facile arrivare a Gallicianò, e la strada che si dovrà percorrere mostra bene fino a che punto sia stata anticamente vitale per queste genti la necessità di nascondersi, di trovare riparo da aggressioni e saccheggi. Abbandonando la ss 106 ionica in prossimità di Condofuri marina, si imbocca una strada che risale la fiumara dell’Amendolea, regalando scorci e panorami così incredibili e spettacolari che -posso assicurare- qualsiasi fatica dell’autista o del viaggiatore sarà interamente – e anche più – ripagata. Alla propria destra sarà possibile scorgere le rovine del castello Ruffo e, più in alto, i ruderi del castello normanno di Bova, in questo percorso magico ed evocativo che non è un semplice spostamento, ma un vero e proprio viaggio nello spazio-tempo. Come se risalire la fiumara permettesse di ripercorrere a ritroso anche la storia, addentrandosi gradualmente, secolo dopo secolo, per poi ritrovarsi spettatori di un’età antica, di quell’epoca arcaica nella quale le prime società impiegavano tutte le proprie energie e i propri sforzi nell’impresa immane di addomesticare le forze della natura e rendere abitabile il proprio territorio. Così, tra vestigia di antiche civiltà, spuntoni di rocce e canyon mozzafiato, superato il ponte che oltrepassa la fiumara, si imbocca la strada che, inerpicandosi su un colle scosceso di ulivi e querce, conduce a Gallicianò.

Sarà necessario arrivare per rendersene conto, perché il paese rimane nascosto, celato fino alla fine del tragitto. E lo si troverà così: rosso di cotto, grigio di roccia e ombreggiato com’è ombreggiata la valle sulla quale è adagiato. Vi è, in tutto il paese, solamente un punto in cui almeno per qualche minuto, in ogni stagione e ogni giorno dell’anno, batte sempre il sole, ed è la chiesa bizantina edificata sulla sommità del borgo. La chiesa è oggi ristrutturata e visitabile e, in virtù della particolare atmosfera creata dal drappeggio, dalle candele, dalle decine di icone sacre dai decori raffinati e preziosi, non è necessario essere credenti per percepirne, palpabile, la magia.

Come fare per prenotare una visita guidata? Basta recarsi nella piazza del paese e parlare con la prima persona che si incontra lungo la via. Con tutta probabilità, quella persona è una guida, oppure conosce qualcuna delle guide del borgo, che accorrerà prontamente con un gran mazzo di chiavi per aprire tutti gli scrigni pieni di piccoli tesori che Gallicianò può offrire ai propri ospiti: le due chiese, il museo etnografico, la locanda.

La nostra guida si chiama Giovanni, e il suo volto ha i colori così intensi e i tratti così definiti che sembra quasi un dipinto, una pittura. Uno di quei quadri siciliani che raffigurano i mori o i personaggi cavallereschi dell’epopea dei pupi. Capelli e occhi di un nero intensissimo, labbra rosse come ciliegie, pelle mediterranea arsa dal sole. Il suo arrivo è preannunciato da Nino, gestore della locanda di Gallicianò, che ci raggiunge in motorino nei pressi della chiesa bizantina, sulla sommità del colle. È in effetti un po’ bizzarro veder spuntare un abitante in sella a un motorino, come lo è udire, di tanto in tanto, il rumore di questi mezzi utilizzati all’interno del paese, unica concessione alla modernità in un panorama sonoro che per il resto alterna il cinguettio degli uccelli ai belati delle capre e allo scrosciare del piccolo corso d’acqua che converge nell’unica fontana. È bizzarro perché il paese è minuscolo e si gira interamente a piedi in pochi minuti; ma le salite sono irte e gli abitanti, alle volte, indaffarati, perché, proprio come nelle tradizionali società agricole o pastorali, qui si è abituati a provvedere da sé praticamente per qualsiasi cosa. E allora ognuno cura il proprio orto, produce il proprio vino e le proprie conserve, porta al pascolo il gregge, ristruttura da sé la propria casa, sistema e mantiene i muretti a secco che delimitano gli orti, i giardini e le aiuole. Proprio come una volta, quando non esisteva la divisione tra tempo libero e lavorativo ed esisteva invece, semplicemente, il tempo. Ecco, il motorino, di tempo – e fatica – te ne fa risparmiare parecchio.

Questa commistione tra tempo lavorativo e normale quotidianità è particolarmente evidente alla locanda del paese, gestita da Nino e dai suoi familiari e “aperta solo su prenotazione”. In realtà, basta telefonare anche poco prima, se lo si decide all’ultimo, e Nino ti dirà “Non ti preoccupare, vieni, ché qualche cosa la arrangiamo”. E il suo “arrangiare” è quello dei calabresi: prevede una mezza dozzina di portate e ti lascerà andar via solo quando sarai completamente sazio e ristorato dalla genuinità delle pietanze e dal calore dell’accoglienza e, ovviamente, del vino – che è quello che producono e bevono loro stessi. È praticamente un pranzo (o una cena) in famiglia e non può essere altrimenti. E quando, a fine pasto, si chiacchiera insieme sorseggiando un buon amaro o un caffè – o più probabilmente entrambe le cose – il continuo andirivieni dei vicini di casa che offrono il loro aiuto o semplicemente la loro compagnia ti fa realizzare un fatto incontestabile: a Gallicianò l’ospitalità è veramente diffusa, nel senso che lì sei, nello stesso momento, ospite di tutti quanti.

Gallicianò ti adotta, ti assiste, si prende cura di te dal momento in cui arrivi fino a quando non riparti. Ti parla, ti ascolta, ti apre le porte. E quando, a tarda notte, riscenderai dal colle verso la fiumara  per far ritorno a casa, lo spettacolo di un cielo incredibilmente stellato sarà per te l’ultima coccola, l’ultimo prezioso regalo, di questa antica e sacra accoglienza.

folklore e tradizioni

Calabria e tradizioni: ‘u Giganti e ‘a Gigantissa

La Calabria è, alle volte, un regno magico, capace di stupirti, di rapirti e di stregarti con il fascino e la potenza delle sue tradizioni popolari. La Calabria è terra d’incanto, terra misteriosa, in cui il folklore è vivo ed è capace, ancora oggi, di raccontare le storie di noi calabresi, di dare voce alla nostra anima.

Tra i tanti personaggi che animano le nostre feste popolari, quelli ai quali sono più legata, quelli che sono ancora capaci di suscitare in me lo stesso stupore di quando, ancora bambina, li vidi per la prima volta, sono forse i due giganti. Con la lingua madre di ogni tradizione – e cioè il nostro meraviglioso dialetto – li chiamiamo ‘u Giganti e ‘a Gigantissa.

Ogni qualvolta riesco a recarmi nei paesini della provincia tirrenica, ma non solo, per assistere alle feste popolari che tanto adoro, aspetto con ansia la loro apparizione. E poi puntualmente li vedo ergersi, danzanti e fieri, a un lato della piazza, per conquistare con il loro ballo coinvolgente il centro del palco e l’attenzione di tutti i presenti. Enormi pupazzi di cartapesta, ‘u Giganti e ‘a Gigantissa raffigurano i mitici protagonisti di un’antica leggenda popolare – il moro Grifone e la calabrese Mata – che trae origine dal contatto con la cultura catalana e risale perciò al periodo della dominazione spagnola.

Ancora oggi, dopo molti secoli, gli enormi pupazzi presiedono le nostre cerimonie come austeri e sublimi garanti, per condurre poi le danze con il loro tipico passo che ha in sé un qualcosa di inquietante eppure di fortemente attrattivo. Le loro lunghe braccia di pezza si tendono e di sollevano durante le giravolte per poi ricadere lungo i fianchi non appena i giganti interrompono la loro rotazione. Seguendo il ritmo incalzante dei tamburi, le statue avanzano e indietreggiano, si allontanano per riavvicinarsi subito dopo in un ballo arcaico che si ripete ancora oggi, a testimonianza e memoria di un corteggiamento esemplare.

Grifone, saraceno, Mata, calabrese: questa coppia leggendaria ci permise un tempo di esorcizzare la paura per il conquistatore straniero, sancendo un’unione allo stesso tempo simbolica tra due persone ed effettiva tra due mondi.

Da allora è passato tanto tempo e sono cambiate molte cose, ma i nostri Giganti sono troppo belli, maestosi e fieri per finire in un museo, luogo in cui tra l’altro non si festeggia mai nulla e soprattutto non si suonano i tamburi e non si balla. Che continuino allora il loro corteggiamento secolare, tra di noi e nelle nostre piazze.

Perché la Calabria è anche questo: è terra in cui, sullo sfondo di un tempo che scorre inesorabile modificando sensibilmente ogni cosa, per certi versi sembra che in fondo si ripeta sempre la stessa storia.