Diario, guida sentimentale di Reggio e provincia, Idee di viaggio

La Via del Torrone

C’è una strada che mi piace un sacco. Come si chiami, non l’ho mai saputo, e in fondo non occorre. E’ quella che da Gioia Tauro conduce a Cittanova, attraversando il territorio che chiamiamo “Piana”.

Ha bei paesaggi? Non direi, qualche scorcio forse. E’ bucolica e tranquilla? Per niente: è frenetica e scintillante come una qualsiasi arteria centrale di una qualsiasi metropoli; lo è a tal punto che passi tra uliveti secolari per quasi tutto il tragitto e neanche te ne accorgi, tanto ti distraggono le luci, il traffico, i rumori. E’ una strada di campagna? Sì, penso che possiamo dire così. E’ provinciale? Assolutamente no: è dinamica e irrequieta come fosse il centro del mondo.

 

Perché mi piace? Perché è unica. Solo questo? Soprattutto questo, ma non solo. E cos’altro? Una parola: torroni. Con quattro parole, mi spiego meglio: produzioni artigianali di torroni. Ovunque. Per tutto il tragitto. E’ praticamente una via dulcis, in cui ogni stazione è un bar, ma non un bar qualsiasi: uno dei più belli al mondo. E ognuno di questi scintillanti bar ha al suo interno il suo scintillante banco dei torroni. Morbidi, croccanti, al bergamotto, con miele e mandorle, al rhum, con le nocciole, all’arancia, torrefatti, al cedro, dite voi un gusto: ci sarà. Bar famosi, rinomati, di cui basta udire il nome per ritrovarsi all’improvviso con l’acquolina in bocca. Figuratevi a entrarci dentro!

C’è una strada che mi piace un sacco, e in un certo periodo dell’anno mi piace ancor di più. E’ quando l’approssimarsi del Natale la rende ancora più frenetica e scintillante di quanto non lo sia già nella normalità. Come si chiami, non l’ho mai saputo, e forse non importa. La chiameremo Via del Torrone, e io ieri l’ho percorsa per voi 😉

 

 

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Spostare le montagne

In autunno, com’è normale, il lavoro cala un po’ e allora io ne approfitto per visitare quelle parti di Calabria che ancora non conosco, per riprendere il mio percorso di esplorazione di una terra che non smette mai di sorprendere e di stupire, che sembra sempre più vasta – direi sconfinata – quanto più se ne sonda la profondità.

Non lo si sottolinea mai abbastanza: la Calabria è conosciuta per il mare (in effetti, ne abbiamo 2) ma la nostra vera ricchezza sono le aree interne. Forse iniziamo un po’ a capirlo, ma non ne siamo ancora del tutto consapevoli. Noi calabresi rivolgiamo alle nostre aree interne uno sguardo ambiguo, ambivalente: da una parte, non possiamo dimenticare secoli di miseria, povertà, privazioni e isolamento delle nostre genti, una situazione così marcata e potente da cancellare, nelle nostre memorie, lo splendore e i fasti delle età più antiche; d’altra parte, è però innegabile che questi paesaggi così arcaici e suggestivi esercitano su di noi un fascino magnetico, toccano le corde più profonde del nostro essere e ci fanno sentire a casa.

Ambivalente è anche il nostro comportamento: alcune e alcuni di noi dedicano la propria vita al recupero sociale, culturale ed economico delle nostre aree interne e si riuniscono in associazioni e movimenti per progettare un futuro, garantire una salvezza. Allo stesso tempo, altre persone… beh, se dipendesse da loro, il futuro della mia terra sarebbe una cremazione, un mucchietto di cenere che lo scirocco e la boria spazzerebbero via come niente. Questa estate in Aspromonte oltre 7mila ettari di bosco sono andati in fumo. Una tragedia che ci ha colpito dritto al cuore. E’ terribile, il fuoco. Divora tutto e non rimane niente. Occorre allora impegnarsi il doppio, il triplo, mille volte tanto, per rinascere dalle ceneri. A volte succede.

Nel 2002 un incendio colpì l’area boschiva che circonda il comune di Nardodipace, situato al confine tra la zona della Locride (RC) e quella delle Serre (CZ). E se il fuoco distrugge sempre, questa volta ha rivelato. Ha permesso che tornassero alla luce delle opere megalitiche risalenti al V millennio a. C. “La Stonehenge calabrese”, l’abbiamo chiamata. Una serie di rocce enormi accatastate le une sulle altre e tenute insieme da un equilibrio basato unicamente sul loro peso. Né cemento, né malta: solo forza di gravità, la stessa forza che ci è voluta per creare queste formazioni.

Una volta gli uomini e le donne spostavano letteralmente le montagne. E ancora oggi, in senso figurato, continuano a farlo con la stessa forza, cercando di tenere insieme senza cemento né malta un territorio che rischia la crisi perenne, lo sfilacciamento, l’abbandono, la disgregazione. Il fuoco e la cenere.

Non è detto che sempre riusciremo a rinascere. Questa volta, almeno, ce l’abbiamo fatta.

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Pentedattilo, mano d’artista

La più nota ed accessibile delle nostre città fantasma trae il proprio nome da un’analogia così immediata ed evidente che davvero non la si sarebbe potuta chiamare altrimenti. È uno di quei casi in cui il nome attribuito sembra emanare dal luogo stesso, come fosse incorporato alla località in questione.

Pentedattilo, cinque dita – ovviamente in greco antico, perché questa mano gigante di pietra segnala l’ingresso nell’area grecanica – si staglia su un colle poco distante dal mare in prossimità della città di Melito Porto Salvo e, pur essendo un paese collinare, offre già al visitatore un accenno di paesaggio del versante orientale dell’Aspromonte, in cui isolati picchi di roccia, gole, canyon, vaste fiumare, campi brulli e bruciati dal sole si alternano senza soluzione di continuità.

Di tutte le drammatiche storie di emigrazione e spostamento coatto della popolazione che caratterizzano le nostre città-fantasma, quella di Pentedattilo è, per dir così, la meno sofferta: il paese nuovo sorge solamente un chilometro più a valle, e agli abitanti è rimasto il conforto della visione quotidiana del paese natio, di questa manona di arenaria che, nonostante tutto, continua ad ergersi maestosa, quasi in un saluto solenne.

È sembrato più volte, nel corso dei secoli, che questa grande rocca fosse sul punto di crollare, franare, rovinare al suolo, e la natura non è certo stata, nei suoi confronti, una madre clemente. Terremoti, alluvioni, bufere, e poi ancora scosse e altra pioggia e altre scosse. Nel 1783 ci fu una sequenza sismica così impressionante che il paese ne uscì fortemente ridimensionato. Molti abitanti si spostarono verso la marina iniziando quel processo di spopolamento che si sarebbe concluso intorno agli anni ’60 del ‘900. Dell’antica urbanizzazione non era rimasto più niente, né case, né botteghe, né scuole.

La mano di roccia era ormai una croce sulla lapide di un paese che muore. Eppure resisteva, la mano, e seppur colpita, ferita, scheggiata, era ancora lì, erta e solenne come l’aveva rappresentata Maurits Cornelis Escher, ed Edward Lear prima di lui.

Perché Pentedattilo è un’opera d’arte, un quadro, una pittura, e qualsiasi artista si trovi al suo cospetto resta rapito, stregato, se ne innamora. E, come per un magico gioco di corrispondenze, è proprio l’arte che restituisce  e riporta oggi, a Pentedattilo, la vita. Ripreso e restaurato da un gruppo di associazioni a partire dagli anni ’90, il borgo è oggi visitabile in totale sicurezza e costituisce lo splendido scenario di diverse manifestazioni culturali, come il Festival Paleariza o il Pentedattilo Film Fest. Allo stesso tempo, il recupero delle casette abbandonate ha permesso la creazione di una serie di piccole botteghe artigiane, nelle quali si lavorano il legno, la pietra, il vetro. Si scolpisce, si incide, si dipinge, si recuperano saperi antichi.

Il benvenuto nel borgo rinnovato te lo dà Giorgio, con il suo temperamento esuberante e la sua naturale propensione all’accoglienza. Ama parlare, Giorgio, raccontare le storie della Pentedattilo di ieri e di oggi. E racconta, Giorgio, tutte le storie: quelle vere, quelle plausibili, quelle improbabili, quelle assurde – spesso mescolando e sovrapponendo i diversi piani.

Tutte le storie, racconta Giorgio: quelle legate alla strage degli Alberti, di cui qui non dirò nulla per non rovinargli l’emozione di raccontartela lui per primo, e quelle legate ad una certa leggenda, di cui qui non dirò nulla perché non la ricordo molto bene, e allora meglio chiedere direttamente a lui.

Se deciderai di percorrere l’erta salita che porta su, in cima, ai ruderi del castello, potrai anche immaginare lo scenario che fece da sfondo a queste storie. Nel frattempo, il giallo brillante della ginestra fiorita e il profumo intenso di origano, rosmarino, finocchietto selvatico, ti ricorderanno ad ogni passo che la nazione in cui ti trovi si chiama Mediterraneo. Tornato giù in paese, se il tempo è buono e l’aria limpida e tersa, affacciandoti dal belvedere potrai ammirare l’Etna in tutta la sua maestosità. La mano gigante – che sembra adesso però quasi piccola al confronto – lo saluta decisa, ed avrai voglia di farlo anche tu. E lui, vulcano, fumando, risponderà ad entrambi.

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Roghudi, maledetta bellezza

C’è un turismo che non è per tutti. C’è un turismo che esige rispetto, silenzio, ascolto dei luoghi. Se per te non è il momento, se non è quello che cerchi, se non ne avverti la necessità, quindi, meglio lasciar perdere, o rimandare questo viaggio ad un’altra stagione della tua vita.

La città di Roghudi vecchia è uno di quei luoghi capaci di trasmetterti un senso del tragico così potente da togliere il fiato. È un teatro di guerra, Roghudi vecchia, lo scenario di numerose battaglie che videro contrapporsi nei secoli gli abitanti, caparbi e duri, e le titaniche forze della natura. L’ultimo aspro scontro, avvenuto ormai sei decenni fa, sancì la definitiva vittoria delle seconde sui primi. Gli uomini e le donne, ormai impotenti ed atterriti dall’ultima, fatale, sconfitta, dovettero andar via. Lo fecero tristemente, con delle valigie logore e precarie, rimediate in fretta e furia per trasportare i loro pochi e miseri beni. La loro destinazione era uno di quei non luoghi tipici delle urbanizzazioni più recenti, uno di quei villaggi anonimi e senza identità che i nostri governanti amano costruire per sistemarvi i terremotati e gli sfollati. Tante casette tutte uguali, brutte e squadrate come container, sopra una colata di cemento grigio. Niente piazze, né parchi, né fontane. Niente panchine e niente alberi alla cui ombra poter sostare. Io non ci vivrei mai in un posto così. Di fatti, non ci vivono neanche loro.

La loro Roghudi, l’originale, quella vera, pulsa ancora nei ricordi di queste persone, alimentando una nostalgia profonda che si trasmette di generazione in generazione, come fosse parte del Dna. Gli abitanti di Roghudi, di fatto, continuano ad essere così legati al paese da farne oggetto continuo di pensieri, ricordi, memorie. E, così facendo, lo tengono in vita.

E continuano persino a frequentarlo, questo paese, recandovisi almeno una volta l’anno, nel giorno della festa. È lì che, tra vino, musica e cibi tradizionali, l’esilio termina, per un giorno, e si ricostruisce la comunità.

Ecco, se decidi di visitare Roghudi vecchia, non dimenticare quanto hai appena letto. Tienilo bene a mente quando percorrerai una delle due strade che portano lì, entrambe impervie, sconnesse, maledette. Tienilo a mente quando sbircerai dalle finestre delle case, per osservare gli interni che portano i segni inconfondibili di un abbandono fugace e quelli del tempo e della natura che si riprende, inesorabilmente, ogni cosa. Non dimenticarlo quando, dal punto più esposto della rupe, osserverai il paesaggio e ti smarrirai nell’estasi della contemplazione: non è comune, questa bellezza, non può esserlo. È la bellezza sublime di ciò che ti annulla e ti sovrasta, che stabilisce il tuo destino e dispone della tua esistenza. Bellezza inaccessibile, crudele, ingrata. Bellezza maledetta d’Aspromonte.

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A Gallicianò.

A Gallicianò l’ospite è sacro. È sacro come lo era nella cultura millenaria della Magna Grecia, cultura della quale questo piccolo borgo aspromontano ha conservato splendidamente, nel corso dei secoli, il carattere, le tradizioni, in una parola l’anima. “Apri la porta, affinché entri il sole” – o meglio, “Anisce tìn porta, na mbèi o ìglio” perché, dell’antica Grecia, Gallicianò ha conservato persino la lingua – è l’espressione che fu usata da un abitante del paese ormai più di mezzo secolo fa per sancire l’ingresso in casa propria di un’ospite speciale, e da quel giorno è diventata la formula magica di ogni nuovo ingresso, di ogni accoglienza.

In questo piccolo splendido borgo, l’ospite è il sole. È il sole ed è luce, l’ospite, per Gallicianò e la sua gente, per un popolo che sentì forte, secoli fa, la necessità di nascondersi tra queste dure ed aspre vette e che oggi, di quella scelta, è costretto a pagarne le conseguenze amare. L’isolamento, l’abbandono, l’emigrazione. Se sei una delle quaranta persone rimaste stabilmente ad abitare qui – a volte gli uomini e le donne hanno radici incredibilmente forti e tenaci – ed assisti ogni giorno all’inesorabile spopolamento del tuo paese natio, si capisce bene come ogni visita inattesa, ogni novità, ogni evento che possa portare un po’ di vita sia per te, semplicemente, luce, semplicemente il sole.

Non è molto facile arrivare a Gallicianò, e la strada che si dovrà percorrere mostra bene fino a che punto sia stata anticamente vitale per queste genti la necessità di nascondersi, di trovare riparo da aggressioni e saccheggi. Abbandonando la ss 106 ionica in prossimità di Condofuri marina, si imbocca una strada che risale la fiumara dell’Amendolea, regalando scorci e panorami così incredibili e spettacolari che -posso assicurare- qualsiasi fatica dell’autista o del viaggiatore sarà interamente – e anche più – ripagata. Alla propria destra sarà possibile scorgere le rovine del castello Ruffo e, più in alto, i ruderi del castello normanno di Bova, in questo percorso magico ed evocativo che non è un semplice spostamento, ma un vero e proprio viaggio nello spazio-tempo. Come se risalire la fiumara permettesse di ripercorrere a ritroso anche la storia, addentrandosi gradualmente, secolo dopo secolo, per poi ritrovarsi spettatori di un’età antica, di quell’epoca arcaica nella quale le prime società impiegavano tutte le proprie energie e i propri sforzi nell’impresa immane di addomesticare le forze della natura e rendere abitabile il proprio territorio. Così, tra vestigia di antiche civiltà, spuntoni di rocce e canyon mozzafiato, superato il ponte che oltrepassa la fiumara, si imbocca la strada che, inerpicandosi su un colle scosceso di ulivi e querce, conduce a Gallicianò.

Sarà necessario arrivare per rendersene conto, perché il paese rimane nascosto, celato fino alla fine del tragitto. E lo si troverà così: rosso di cotto, grigio di roccia e ombreggiato com’è ombreggiata la valle sulla quale è adagiato. Vi è, in tutto il paese, solamente un punto in cui almeno per qualche minuto, in ogni stagione e ogni giorno dell’anno, batte sempre il sole, ed è la chiesa bizantina edificata sulla sommità del borgo. La chiesa è oggi ristrutturata e visitabile e, in virtù della particolare atmosfera creata dal drappeggio, dalle candele, dalle decine di icone sacre dai decori raffinati e preziosi, non è necessario essere credenti per percepirne, palpabile, la magia.

Come fare per prenotare una visita guidata? Basta recarsi nella piazza del paese e parlare con la prima persona che si incontra lungo la via. Con tutta probabilità, quella persona è una guida, oppure conosce qualcuna delle guide del borgo, che accorrerà prontamente con un gran mazzo di chiavi per aprire tutti gli scrigni pieni di piccoli tesori che Gallicianò può offrire ai propri ospiti: le due chiese, il museo etnografico, la locanda.

La nostra guida si chiama Giovanni, e il suo volto ha i colori così intensi e i tratti così definiti che sembra quasi un dipinto, una pittura. Uno di quei quadri siciliani che raffigurano i mori o i personaggi cavallereschi dell’epopea dei pupi. Capelli e occhi di un nero intensissimo, labbra rosse come ciliegie, pelle mediterranea arsa dal sole. Il suo arrivo è preannunciato da Nino, gestore della locanda di Gallicianò, che ci raggiunge in motorino nei pressi della chiesa bizantina, sulla sommità del colle. È in effetti un po’ bizzarro veder spuntare un abitante in sella a un motorino, come lo è udire, di tanto in tanto, il rumore di questi mezzi utilizzati all’interno del paese, unica concessione alla modernità in un panorama sonoro che per il resto alterna il cinguettio degli uccelli ai belati delle capre e allo scrosciare del piccolo corso d’acqua che converge nell’unica fontana. È bizzarro perché il paese è minuscolo e si gira interamente a piedi in pochi minuti; ma le salite sono irte e gli abitanti, alle volte, indaffarati, perché, proprio come nelle tradizionali società agricole o pastorali, qui si è abituati a provvedere da sé praticamente per qualsiasi cosa. E allora ognuno cura il proprio orto, produce il proprio vino e le proprie conserve, porta al pascolo il gregge, ristruttura da sé la propria casa, sistema e mantiene i muretti a secco che delimitano gli orti, i giardini e le aiuole. Proprio come una volta, quando non esisteva la divisione tra tempo libero e lavorativo ed esisteva invece, semplicemente, il tempo. Ecco, il motorino, di tempo – e fatica – te ne fa risparmiare parecchio.

Questa commistione tra tempo lavorativo e normale quotidianità è particolarmente evidente alla locanda del paese, gestita da Nino e dai suoi familiari e “aperta solo su prenotazione”. In realtà, basta telefonare anche poco prima, se lo si decide all’ultimo, e Nino ti dirà “Non ti preoccupare, vieni, ché qualche cosa la arrangiamo”. E il suo “arrangiare” è quello dei calabresi: prevede una mezza dozzina di portate e ti lascerà andar via solo quando sarai completamente sazio e ristorato dalla genuinità delle pietanze e dal calore dell’accoglienza e, ovviamente, del vino – che è quello che producono e bevono loro stessi. È praticamente un pranzo (o una cena) in famiglia e non può essere altrimenti. E quando, a fine pasto, si chiacchiera insieme sorseggiando un buon amaro o un caffè – o più probabilmente entrambe le cose – il continuo andirivieni dei vicini di casa che offrono il loro aiuto o semplicemente la loro compagnia ti fa realizzare un fatto incontestabile: a Gallicianò l’ospitalità è veramente diffusa, nel senso che lì sei, nello stesso momento, ospite di tutti quanti.

Gallicianò ti adotta, ti assiste, si prende cura di te dal momento in cui arrivi fino a quando non riparti. Ti parla, ti ascolta, ti apre le porte. E quando, a tarda notte, riscenderai dal colle verso la fiumara  per far ritorno a casa, lo spettacolo di un cielo incredibilmente stellato sarà per te l’ultima coccola, l’ultimo prezioso regalo, di questa antica e sacra accoglienza.